Si è concluso con la redazione di una “Carta sulla biodiversità” e le solite dichiarazioni d’intenti il G8 sull’ambiente tenutosi a Siracusa tra il 22 e il 24 aprile.
L’incontro, che ha visto la partecipazione di Ministri dell’Ambiente, funzionari e responsabili di Governo, organismi internazionali e aziende private, si è focalizzato su tre temi principali: le tecnologie a basso contenuto di carbonio, il cambiamento climatico e la biodiversità.
La “Carta sulla biodiversità” è stata definita, nel
sommario conclusivo del G8, come una “pietra miliare” in vista del 2010, che sarà appunto l”anno internazionale della biodiversità. Questo documento ribadisce la volontà di fermare il declino delle specie viventi, attraverso la tutela degli ecosistemi, sottolineando come soltanto un’immediata azione coordinata di difesa degli habitat possa scongiurare in futuro costi insostenibili per il ripristino della biodiversità.
Meno concreti, invece, i risultati ottenuti sul fronte delle tecnologie a basso contenuto di carbonio e su quello del cambiamento climatico. Per quanto possa sembrare un paradosso, nelle tre pagine del sommario conclusivo dedicate alle tecnologie “verdi”, le energie rinnovabili vengono citate soltanto una volta e in termini alquanto generici.
Come previsto, non è stato concluso alcun accordo vincolante né sulle rinnovabili né sul clima, rimandando tutto alla conferenza di
Copenhagen 2009. Da sottolineare invece come “alcuni Ministri” (ma non ci è dato sapere quali e quanti) abbiano richiamato la necessità di rafforzare gli investimenti rivolti alle tecnologie CCS, cioè per la cattura e lo stoccaggio del carbonio.
Ma non solo: “alcuni Ministri e rappresentanti del settore privato”, si legge nel sommario conclusivo, “hanno menzionato il ruolo dell’energia nucleare nella riduzione delle emissioni di carbonio”. Tralasciamo in questa sede l’argomento nucleare, il cui ruolo nella riduzione della CO2 è tutt’altro che una certezza assiomatica, per concentrarci sulla tecnologia CCS di stoccaggio e cattura del carbonio.
Si tratta, in poche parole, di un complesso sistema applicato alle centrali a carbone, che consentirebbe (il condizionale è d’obbligo) di intercettare la CO2 prodotta dalla combustione, per poi iniettarla e stoccarla sottoterra sfruttando giacimenti petroliferi e depositi di gas esausti.
Nel corso del summit di Siracusa, l’Italia ha firmato un accordo con l’Australia proprio per promuovere investimenti e ricerca sulla tecnologia CCS. L’accordo rientra nella più ampia iniziativa promossa dal governo australiano per formare un Istituto dedicato agli aspetti globali del CCS (GCCSI— Global CCS Institute).
Senza entrare nel dettaglio della tecnologia CCS, proviamo soltanto a esaminare i possibili risvolti economici che potrebbe portare l’adozione su larga scala di soluzioni per la cattura e il sequestro del carbonio.
Al riguardo, assume un valore esemplare quanto stabilito pochi giorni fa dal governo britannico e annunciato da Ed Milliband, ministro inglese per i cambiamenti climatici e l’energia. Tra i tanti punti dell’innovativa “finanziaria verde” messa a punto della Gran Bretagna, vi sono anche riferimenti specifici alla tecnologia CCS. Tutte le nuove centrali a carbone realizzate in Inghilterra, per poter essere autorizzate dovranno catturare e sequestrare almeno il 25% dell’anidride carbonica prodotta. Entro il 2025, la percentuale di CO2 catturata dovrà essere del 100%.
Si tratta di una notizia apparentemente positiva, ma che nasconde alcune insidie. Dal momento che una nuova centrale a carbone con tecnologia CCS costa circa 1 miliardo di sterline, il governo inglese sta già pensando all’introduzione di un’imposta che porterebbe a un aumento della bolletta di almeno il 2%. In alternativa, lo Stato potrebbe farsi carico di incentivare le compagnie energetiche, proporzionalmente alla quantità di CO2 stoccata.
Rimane infine, per i proprietari delle centrali, la possibilità di beneficiare di sostanziosi finanziamenti europei pensati ad hoc. Qualunque sarà l’opzione scelta dal governo britannico, sembra proprio di capire che i costi per una tecnologia che, come sostiene candidamente il ministro britannico, “deve ancora dimostrare di funzionare su grande scala”, saranno in ogni caso a carico degli utenti finali del sistema elettrico.
Ed è ormai pienamente assodato come ogni euro dirottato verso tecnologie futuribili o addirittura inquinanti (vedi i casi del
nucleare o il
CIP6 “nostrano”), non è nient’altro che l’ennesimo euro sottratto alle
“vere” rinnovabili.
Il problema dei costi, oltre che della fattibilità tecnica, rimane uno dei punti deboli della tecnologia CCS. Il Consiglio per la sostenibilità del governo tedesco ha stimato che i costi per lo stoccaggio della CO2 superebbero da 20 a 60 €/tonnellata di CO2 quelli necessari per ottenere gli stessi risultati mediante l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. Ma allora, sostiene
Hermann Scheer, Direttore Generale del Consiglio Mondiale per l’Energia Rinnovabile, “se le energie rinnovabili costano fin d’ora meno di un’ipotetica centrale senza CO2, il confronto dei costi sarà ancor più favorevole nel 2020”, quando cioè la tecnologia CCS dovrebbe essere commercialmente disponibile.
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