Milano, 23 aprile 2009 - 00:00

Decreto incentivi, dalla lavatrice impossibile all'ok per il carbone

Insieme a una serie di misure realmente incentivanti – come quelle pensate per rilanciare in chiave ecologica il settore dell’auto – il decreto incentivi (legge 9 aprile 2009, n. 33) introduce misure che destano sconcerto.

Ancora una volta, un provvedimento pensato per uno scopo (in questo caso sostenere i settori industriali in difficoltà), viene trasformato in un confuso contenitore di norme eterogenee e ben poco rispondenti alle intenzioni politiche dichiarate. Basta guardare l’articolo 2 e l’articolo 5-bis, dedicati rispettivamente alle detrazioni di mobili ed elettrodomestici e al via libera per la centrale a carbone di Porto Tolle.
 
Per quanto riguarda le detrazioni fiscali, c’è da notare che– rispetto al testo iniziale di febbraio – le parole “elettrodomestici ad alta efficienza energetica” sono state sostituite nelle versione definitiva da “elettrodomestici di classe energetica non inferiore ad A+”. Purtroppo, chi ha redatto la legge sembra ignorare che soltanto i frigoriferi e i congelatori possiedono una classe energetica superiore alla A (A+ e A++). Tutti gli altri elettrodomestici, come lavastoviglie, lavatrici, forni e climatizzatori, non vanno oltre la classe A.

Quindi, in definitiva, il decreto anticrisi incentiva unicamente frigoriferi e congelatori? No, a quanto sembra nemmeno questi. Infatti lo stesso articolo specifica che, tra gli elettrodomestici di classe non inferiore ad A+ che possono accedere alla detrazione, sono esclusi proprio i frigoriferi e congelatori, dal momento che questi beneficiano di una preesistente e analoga detrazione del 20%, introdotta con la Finanziaria 2007 e prorogata fino al 2010. In altre parole, come è stato osservato da alcuni commentatori, sembra trattarsi di un vero e proprio “incentivo fantasma”.

 
Durissima e immediata la reazione di Ceced Italia, l’associazione che rappresenta più di 100 aziende operanti nella produzione di apparecchi domestici e professionali, un comparto con 150mila addetti e oltre 14 miliardi di euro di fatturato annuo. Queste le parole di Pietro Moscatelli, presidente di Ceced Italia: “La conversione in legge del decreto in questa forma suona come una vera e propria presa in giro dei consumatori e dei produttori in Italia”. Moscatelli ha inoltre sottolineato come già la versione originaria del decreto promulgata in febbraio (che come abbiamo visto prevedeva una molto vaga categoria di elettrodomestici “ad alta efficienza energetica”), avrebbe apportato pochi benefici, dal momento che la detrazione è prevista soltanto se l’acquisto dell’elettrodomestico avviene nell’ambito di una ristrutturazione edilizia. Non soltanto in questi mesi la norma non è stata rivista ma al contrario, dice Moscatelli, “quanto è stato approvato dalla Camera azzera anche quel minimo contributo residuo che gli incentivi avrebbero potuto dare per stimolare un mercato e un settore industriale in drammatica crisi”. Il presidente di Ceced Italia, infine, rileva un aspetto molto preoccupante della nostra prassi legislativa: “Registriamo anche come non siano stati richiesti dai relatori in Commissione i contributi tecnici, tra i quali il nostro, alla stesura di un testo legato alla realtà, evidentemente ignota al legislatore”. 
 
Occupiamoci ora delll’articolo 5-bis del decreto incentivi che, dietro ad una apparente generalità, nasconde in realtà una norma già ribattezzata “ad centralem”. Vediamo di che cosa si tratta. Nell’articolo in questione è scritto che “per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile (…), al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale, (…).”

Come già osservato dalle principali associazioni ambientaliste, questa norma è pensata per sbloccare il progetto di riconversione della centrale Enel di Porto Tolle (RO), che dal 2005 risulta fermo presso la Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente. La centrale di Porto Tolle, situata nel cuore del delta del Po, ha funzionato per anni ad olio combustibile, fino a quando gli elevati costi della materia prima e diversi problemi di inquinamento ambientale hanno portato al fermo dell’impianto. Da qui il progetto – che vale oltre 2 miliardi di euro – di riconvertire la centrale, sostituendo l’olio combustibile con il meno inquinante “carbone pulito”. La possibilità di “operare in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali” significa scansare l’articolo 30 del regolamento istitutivo del Parco regionale del delta del Po (Legge regionale 8 settembre 1997, n.36), che nell’intero territorio del Parco stabilisce che “gli impianti di produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale”. Ricordiamo che il delta del Po è la più grande zona umida d’Italia e per la sua valenza storica e culturale, oltre che per l’importanza naturalistica, è uno dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Il previsto flusso di oltre 3.000 chiatte, che ogni anno dovrebbero rifornire la centrale transitando all’interno dell’area protetta, porterebbe a impatti ambientali e rischi ecologici difficilmente quantificabili.  

 
Se da un lato è innegabile che, rispetto all’olio combustibile, le moderne tecnologie a carbone consentono un abbattimento di molte sostanze inquinanti, d’altra parte il carbone, per quanto “pulito”, presenta un problema fondamentale: la quantità di anidride carbonica (che è un gas non inquinante, ma climalterante) emessa per ogni chilowattora prodotto rimane elevatissima. Una centrale a ciclo combinato a gas produce mediamente 365 grammi di CO2 per chilowattora prodotto, contro gli oltre 770 grammi di una centrale a carbone. Basti pensare che nel 2007 le 12 centrali a carbone italiane hanno emesso il 30% della CO2 dell’intero parco elettrico nazionale, contribuendo però soltanto per il 14% al totale dell’energia elettrica. L’aggiunta dell’ennesima centrale a carbone non fa che allontanarci ulteriormente dagli obiettivi –ormai fuori portata –  del protocollo di Kyoto e dagli obiettivi europei al 2020. E inoltre, contrariamente a quanto si sente spesso affermare, il carbone non risolve in alcun modo i nostri problemi di sicurezza nell’approvvigionamento energetico, dal momento la materia prima viene estratta a migliaia di chilometri di distanza, per di più in Paesi con condizioni sociali e geopolitiche tutt’altro che stabili.  

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