USA, due scuole di pensiero a confronto per il piano di riduzione delle emissioni
I target di diminuzione delle emissioni previsti dal programma di Barack Obama sono ambiziosi. Tra i democratici infuria il dibattito tra i sostenitori del sistema cap-and-trade e i fautori della tassazione diretta del carbonio.
Thomas L. Friedman, dalle pagine del New York Times, prende posizione a favore della Larson Bill, perché pensa che sia una misura “più facile da portare a casa”: ritiene infatti che una formula complessa di emission trading difficilmente riuscirebbe a passare al Congresso, poiché i repubblicani hanno già definito il cap-and-trade come una tassa nascosta ... dunque tanto vale parlar chiaro e proporre una nuova tassazione della CO2 in cambio di sgravi fiscali sui redditi da lavoro.
Certamente Friedman ha ragione su una cosa: difficilmente l’opinione pubblica statunitense capirà come funziona l’emission trading, dunque potrebbe essere facile boicottare una legge in tal senso. Sappiamo che anche l’opinione pubblica europea non ha mai compreso che cos’è un sistema cap-and-trade, eppure l’Europa è arrivata a metterlo in atto, avendo sottoscritto il Protocollo di Kyoto.
Dato che adesso è il gigante americano a discutere di questo tema, forse è utile un ripasso.
I sistemi cosiddetti cap-and-trade si basano su una normativa di limitazione delle emissioni (cap, cioè blocco, limite) e un contemporaneo mercato (trade, negoziazione) delle quote di emissione consentite ai diversi soggetti.
In questi sistemi, i soggetti obbligati sono tenuti per legge a diminuire le proprie emissioni, o in alternativa, se lo considerano più conveniente, ad acquistare attraverso le istituzioni preposte, corrispondenti “crediti di emissione”, che assumono diversi nomi a seconda del paese e del sistema che si analizza (carbon credit, crediti, certificati, quote, contratti, ecc.)
L’impianto degli schemi cap-and-trade consiste nell’attribuire ai diversi soggetti (in primo luogo ai grandi “emettitori” industriali e del settore energetico) una quota di emissioni consentite, le cosiddette allowance, mettendo poi a disposizione gli strumenti di mercato necessari ad effettuare scambi e contrattazioni (offset). Gli obiettivi si raggiungono abbassando via via le quote consentite: gli emettitori che non riescono a migliorare le proprie performance, grazie a nuove tecnologie o al ricorso a fonti energetiche rinnovabili, ricorreranno all’acquisto di carbon credit sul mercato, ai prezzi che il mercato stesso determinerà.
Il Protocollo di Kyoto è impostato secondo regole cap-and-trade: specifica gli obiettivi di riduzione per le varie tipologie di paesi (soprattuto distinti in industrializzati e non industrializzati) e predispone meccanismi internazionali di scambio e compensazione, i cosiddetti “meccanismi flessibili”, di cui il più importante è l’Emission Trading.
Il sistema europeo deriva dal Protocollo di Kyoto ed è quindi strutturato secondo la logica cap-and-trade: esistono cioè obblighi provenienti dalle Direttive Europee, poi diversamente applicati nei singoli paesi. Si tratta comunque di mercati “amministrati”, in cui convivono normative di limitazione e logiche di domanda-offerta.
Negli Stati Uniti, che non hanno aderito al Protocollo di Kyoto e non si sono fino ad ora dotati di un sistema federale, gli scambi di emissioni esistono comunque, ma sono sempre stati considerati “volontari”, o meglio “privatistici”. Nel senso che numerosi soggetti hanno auto-organizzato la commercializzazione dei diritti traendone dei benefici: in pratica si sono allenati in anticipo a giocare all’interno di un mercato che – pensano – tra non molto sarà costretto a porre delle regole. In pratica hanno attuano il “trade” in attesa del “cap”.
La logica della tassazione diretta del carbonio è – evidentemente – molto più semplice da capire e anche da attuare: aumentano subito tutti i prezzi, a partire dalla benzina e dal riscaldamento, giù giù fino al prezzo del pane. Esattamente come succede quando il petrolio si impenna.
Ma è importante notare una cosa quando si mette a confronto il mondo fiscale americano con quello italiano (e in certa misura europeo): prima di tutto, avendo gli USA una bassissima imposizione sui carburanti, appare lì più facile risanare la situazione con una tassa generalizzata sul carbonio. Tant’è vero che gli ambientalisti statunitensi considerano gli europei molto virtuosi perché pagano moltissime tasse sui carburanti: spesso le citano come carbon tax, cioè “tasse di scopo”, che mirano a scoraggiare il consumo, ma il cui gettito è finalizzato a offrire servizi alternativi. Noi sappiamo per esperienza che in Italia l’alta imposizione non ha mai contribuito a sanare né i problemi ambientali specifici legati al traffico, o alla salute, né tanto meno quelli legati alle emissioni: in mancanza di alternative, abbiamo pagato tantissimo ma, semplicemente, lo Stato ha usato quei soldi per tutt’altro.
Questa è la ragione per cui noi non crederemmo ad un governo che decidesse di aumentare le tasse sul carbonio promettendo di diminuire le tasse sui redditi: ma negli Stati Uniti (e anche in alcuni paesi europei più avanzati del nostro) questo principio di “tax shifting”, cioè di spostamento contemporaneo dell'imposizione fiscale, è una prassi politica e non una finzione.
Per tornare al dibattito americano e al cap-and trade: si tratta di un sistema che impone degli obblighi e dei costi ai responsabili delle emissioni, ma non è in alcun modo assimilabile ad una tassa. La differenza sostanziale è che, prima di tutto, la singola impresa può decidere una propria strategia di adeguamento, non viene punita tutto d’un colpo e senza alternative. O riesce a migliorare le proprie tecnologie e i propri processi produttivi, o paga quote di emissione (proprio come accade a ognuno di noi quando ha un’auto vecchia e che consuma troppo: se non abbiamo i soldi per cambiarla, rimandiamo e spendiamo di più in benzina). In secondo luogo, se effettivamente l’azienda riesce a migliorare tecnologie e processi, risparmia e fa risparmiare energia – dunque denaro e dunque CO2.
Senza troppo osannare i mercati amministrati delle emissioni, forse piacerebbe che almeno i politici e gli economisti riuscissero capirne la logica prima di avversarli in modo così deciso: è un errore che hanno fatto anche gli ambientalisti “puri”, ma hanno poi riconosciuto l’errore.