Milano, 8 novembre 2021 - 17:46

COP 26, da Caporetto al capolinea

Neanche questa volta si è riusciti ad avviare una seria e coerente lotta ai cambiamenti climatici che affronti la questione alla radice.

COP26, capolinea. Non che ci si potesse aspettare molto da un processo come quello dell'Accordo di Parigi, che è stato messo in moto dopo la Caporetto climatica della COP15; la stessa che si concluse in un nulla di fatto, principalmente per l'opposizione degli Stati Uniti a un accordo vincolante, con il presidente Barak Obama che disse testualmente: «Abbiamo fatto molta strada, ma abbiamo ancora molto da fare». Una dichiarazione questa, fatta all'interno di un discorso che, secondo il giornalista Gregg Easterbrook, era la fotocopia di quello che George H.W. Bush aveva dichiarato al Summit della Terra di Rio del 1992.

E, infatti, a Parigi l'accordo non fu vincolante. Ma questa COP26 ad oggi "incastra" la politica. Non tanto con il processo negoziale ma con le premesse. Il nuovo report dell'IPCC uscito nell'agosto del 2021, infatti, ha lanciato l'allarme più netto nella storia dell'organismo delle Nazioni Unite. Prima di tutto, l'IPPC ha smentito scientificamente la soglia dei 2°C al 2100 contenuta nell'Accordo di Parigi, tracciando il limite a 1,5°C, un valore che nell'Accordo fu inserito all'ultimo momento per soddisfare le richieste delle piccole isole del'Oceano Pacifico e che era definito auspicabile.

In secondo luogo, l'IPPC ha tracciato una netta mappa dei rischi coniugandola con una road map stringente sulla riduzione delle emissioni e con una diminuzione delle emissioni da effettuare in tempi brevi. Una doccia fredda che ha allarmato l'opinione pubblica e trovato impreparati sia il settore energetico, nella sua totalità fossile e rinnovabile, sia la politica.

Vediamo il dettaglio. Il settore fossile sa da anni di essere in ritardo, ma ha le spalle coperte dall'inerzia intrinseca e strutturale dei cicli energetici gestiti dall'economia di mercato. Prova di ciò la troviamo nella difficoltà, scaricata sulle famiglie in termini di costi dell'ecologica Germania, nell'abbandono del nucleare e nella, tentata, uscita dal carbone che è fissata al 2038, con un esborso per le casse federali di 40 miliardi di euro in sostegni per la transizione. Tradotto: servono tempo e risorse aggiuntive.

Altra prova è l'approvazione del capacity market da parte dell'Unione Europea, che crea un'area protetta di mercato per gli impianti fossili per un intero ciclo energetico, 25 anni. Cosa che piace molto in Italia visto che, per la sostituzione dei pochi impianti a carbone che possediamo, si punta su quelli a turbogas che saranno pagati per stare fermi la maggior parte del tempo, in previsione della "congiuntura astrale" tra bonaccia ventosa, nebbia persistente su tutto il territorio nazionale e pandemia dei batteri residenti nei digestori anaerobici per il biogas che potrebbe bloccare tutto il segmento delle rinnovabili.

Con simili esempi, è ovvio che i Paesi emergenti non vedano di buon occhio l'imposizione di limiti alle fonti fossili. E non c'è da biasimarli se pensiamo che, per esempio, il Pil della Cina non può andare sotto all'aumento del 5% annuo, senza mettere a rischio la tenuta sociale. Anche la Russia non può certo concedersi limitazioni, considerando che il suo Pil dipende per un 15,2% (dato 2020) dall'energia fossile, con una diminuzione del 4% sul 2019. E poi c'è l'India, la quale, secondo la Iea, dovrebbe raddoppiare il proprio fabbisogno energetico anche per connettere alla rete elettrica 240 milioni di persone che oggi non hanno l'elettricità. Infine, il Brasile al quale si chiede di mettere una "toppa" alle emissioni decennali dei paesi ricchi e di continuare a offrire gratis il servizio ecosistemico d'assorbimento della CO2 grazie all'Amazzonia. Per ora, questi quattro paesi si sono limitati a non escludere lo sviluppo delle rinnovabili, ma con obiettivi al 2060 e al 2070.

Le rinnovabili, dal canto loro, arrivano, con ogni probabilità, impreparate all'appuntamento sia a causa della politica, sia per l'eccessiva timidezza dei soggetti proponenti che hanno atteso i miglioramenti di mercato per agire. Insomma, alle fonti rinnovabili è mancato un Elon Musk che rendesse desiderabili le rinnovabili come il patron di Tesla ha fatto con l'auto elettrica.

In definitiva, alla COP26 è arrivato l'aspetto sociale che irrompe nello scenario delle negoziazioni climatiche e rappresenta un macigno sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici, anche perché il mondo dell'ambientalismo stenta, da anni a occuparsene. Il tutto mentre, con ogni probabilità gli Stati Uniti — il soggetto che è il più irriformabile sul fronte climatico — lascia fare il "lavoro sporco" di difesa delle fonti fossili ai Brics, "sonnecchiando" ai margini della COP, come ha fatto materialmente il presidente Joe Biden.

Appare chiaro, quindi, che il meccanismo delle negoziazioni climatiche, anche se dovesse andare a pieno regime — cosa che è ben distante dall'avvenire — non è sufficiente ad avviare, perché siamo ancora a questo punto, una seria e coerente lotta ai cambiamenti climatici che passa solo ed esclusivamente affrontando la questione alla radice. Ossia riducendo alla fonte le emissioni climalteranti.