Il meccanismo delle COP non è mai partito ed è completamente scisso dalla realtà climatica.
Mentre scende la "tensione climatica" dovuta al post Cop 28 e all'avvicendarsi di crisi geopolitiche come l'invasione Ucraina e la crisi tra Israele e Palestina, arrivano segnali preoccupanti nel contesto legato ai cambiamenti climatici. Il primo è che il 2023 dopo essere stato l'anno più caldo dall'inizio della rivoluzione industriale è anche quello che ci porta in assoluto al valore delle temperature medie che l'Accordo di Parigi ha fissato come obiettivo per fine secolo a più 1,5 °C. Se il trend continuerà così come è oggi, e al momento non c'è alcun motivo reale che induca a pensare al contrario, è possibile che in breve tempo, parliamo di alcuni anni, le anomalie medie globali risultino essere superiori al valore di 1,5 °C. Secondo il climatologo James Hansen, che il 23 giugno 1988 fu il primo scienziato a riferire sulla causa antropica dei cambiamenti climatici alla politica, nello specifico al Senato Usa, la soglia di 1,5°C potrebbe essere superata nel 2024, mentre altri scienziati come Michael Mann sono più cauti ma sostengono che la traiettoria del clima sia questa che vediamo oggi. A meno che non entri in gioco qualche tipping point, fenomeni che lo stesso Hansen definì incubi per i climatologi in quanto non corrispondono ad alcun modello conosciuto. Siamo, infatti, in un percorso scientifico e sociale assolutamente sconosciuto visto che la concentrazione di CO2 in atmosfera al sei gennaio 2024 è stata 422,86 ppm all'osservatorio del NOAA di Mauna Loa, un più 3,58 dai 419,28 di un anno prima, valori mai registrati prima negli ultimi millenni, ragione per la quale la modellistica climatica consolidata negli ultimi anni semplicemente potrebbe non funzionare.
Nello stesso tempo oggi assistiamo a una scissione tra la ricerca climatica e il contesto energetico sociale. Se da una parte abbiamo l'IPCC che lancia allarmi da decenni in base a una solida realtà dei dati climatici inseriti in uno scenario cognitivo e speculativo ferreo, fatto di rigoroso metodo scientifico, dall'altra assistiamo a dinamiche legate al contesto economico, sociale ed energetico che non tengono assolutamente conto dell'urgenza climatica. La cartina di tornasole di ciò è stata la COP 28 che nel suo documento conclusivo ha fatto letteralmente il copia e incolla delle indicazioni presenti nell'ultimo report dell'IPCC nel quale troviamo una riduzione del 43% delle emissioni al 2030, del 60% al 2035 e l'obiettivo del net-zero al 2050. Come abbiamo scritto qualche settimana questi dati sono letteralmente in rotta di collisione con le previsioni della IEA il cui direttore Fatih Birol, il 24 ottobre 2023, ha scritto che: «la quota dei combustibili fossili nell'approvvigionamento energetico globale, ferma da decenni a circa l'80%, scenderà al 73% entro il 2030». Bene abbiamo quindi il mondo reale che prevede una diminuzione delle fonti fossili del 7%. La differenza tra l'8,75% di riduzione dell'Iea e il 43% della COP28 è del 34,25%, un terzo della produzione energetica planetaria. È sufficiente ciò per far notare l'assoluta inutilità delle COP per affrontare la crisi climatica, ma c'è di più due giorni dopo la fine della COP 28 il presidente dell'assise Sultan Al Jaber, AD della compagnia nazionale di petrolio e gas degli Emirati Arabi Uniti, Adnoc, ha annunciato un investimento di 150 miliardi di dollari nella ricerca di nuovi giacimenti al 2030, mentre il prossimo anno COP 29 si svolgerà in l'Azerbaigian e a guidarla sarà Mukhtar Babayev, ministro dell'ecologia e delle risorse naturali dell'Azerbaigian che ha lavorato per 26 anni per la Compagnia petrolifera statale del paese che fa affidamento sul petrolio e sul gas per oltre il 92,5% dei suoi ricavi da esportazioni. Questo il mondo reale che si contrappone agli studi dei climatologi dell'IPCC.
E non è valida nemmeno la tesi sostenuta anche da molti ambientalisti che recita: «La COP è l'unico strumento che abbiano per cui dobbiamo tenercela cara anche se non funziona». No. È necessario dotarsi di un altro strumento che attinga all'enorme serbatoio di contenuti dell'IPCC, che per fortuna è di domino pubblico, e che funzioni in base alle reali dinamiche sociali dal basso. Un'utopia? No. 25 anni fa il movimento no global partì da Seattle per approdare a Porto Alegre, dando vita a un flusso di riflessioni e di politiche alternative e di critica all'esistente che ha avuto come risultato la creazione di un pensiero critico che è anche alla base di quello ecologico odierno. La critica che si fece al movimento no global, ossia quella di una scarsa propositività, è da rispedire al mittente, ma piuttosto la causa del suo esaurimento sul fronte dell'impatto e della forza politica è da attribuire alla complessità dell'oggetto d'analisi – la finanziarizzazione liberista dell'economia -, alle difficoltà di comunicazione, visto che l'oggetto della comunicazione era "ostico" e che all'epoca l'informazione era ancora troppo mediata – la rete Internet era agli inizi – ma soprattutto il movimento no global non fu supportato da nessuna forza politica, anche da quelle più progressiste, come invece avvenne negli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta del secolo scorso, un periodo, durante il quale, i contenuti generati dai movimenti furono usati a piene mani dalle forze politiche progressiste. Oggi è il momento di innescare lo stesso processo dal basso sul clima. Gli elementi ci sono tutti.
La complessità delle questioni climatiche è più problematica sul fronte sociale che su quello dell'atmosfera – e su ciò abbiamo accesso a una letteratura scientifica immensa – ma ci sono ampi fronti di possibilità d'analisi sociale, l'informazione oggi è completamente disintermediata ed è incredibilmente efficiente – e si ha accesso dal basso a tecnologie anche solo cinque anni fa impensabili. Il vero problema oggi è l'innesco di questo processo sul fronte politico. È necessario, infatti, raggiungere una certa massa critica di persone con i contenuti climatici, per fa si che la politica "adotti", finalmente, a pieno titolo la questione. Creando così una "COP" che sia un laboratorio d'innovazione politica sul clima e lasciano la COP ufficiale al greenwashing impossibile dei petrolieri.