Molti fondi d'investimento sono pubblicizzati come green, ma sono in realtà profondamente fossili
C'era il sospetto, ma ora è certezza. Una serie d'investimenti “pubblicizzati” sui media spesso come sostenibili, perché appartenenti alle categorie definite dalla UE, sono greenwashing. Una recente indagine del Guardian rivela infatti che noti marchi di fast fashion, aziende attive nei combustibili fossili e produttori di auto che realizzano SUV sono presenti in maniera massiccia all'interno dei fondi “sostenibili” regolamentati dall'UE. L'analisi del quotidiano inglese sul primo trimestre 2024 riguarda 81 miliardi di euro appartenenti a fondi classificati nelle sezioni ambientali e sociali normati dalle regole di finanza sostenibile dell'UE. Ebbene, di questa cifra ben il 20%, pari a 17 miliardi di dollari, è destinato a oltre 200 soggetti che sono tra i maggiori emettitori di gas serra al mondo.
Questa scoperta solleva interrogativi significativi sulla trasparenza e sull'efficacia delle regole di finanza sostenibile dell'UE. In un'epoca in cui la lotta al cambiamento climatico dovrebbe essere prioritaria, la presenza di investimenti in aziende fortemente inquinanti nei fondi sostenibili rischia di minare la fiducia degli investitori e dei consumatori. Dall'analisi è emerso che la maggior parte degli investimenti dei 200 maggiori inquinatori proviene da fondi classificati ai sensi dell'articolo 8 del regolamento (UE) 2020/852 che integra e modifica il (UE) 2019/2088 e che promuove obiettivi ambientali o sociali, mentre altri 2 miliardi di euro derivano da fondi classificati ai sensi dell'articolo 9, il cui obiettivo principale è l'investimento sostenibile.
Il problema sostanziale è che se da un lato le normative UE non sono state concepite per scopi di marketing, dall'altro queste classificazioni sono spesso usate per esibire le credenziali ambientali di un prodotto finanziario, al punto che di recente l'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) e gli organismi di vigilanza bancaria e assicurativa europei hanno chiesto riforme radicali per contrastare il greenwashing, che evidentemente ha raggiunto livelli elevati. Entrando nel dettaglio, i redattori dell'analisi hanno rilevato che ben 11,5 miliardi di euro d'investimenti dei maggiori inquinatori provenivano da fondi il cui nome includeva la nota sigla “ESG” (ambientale, sociale e governance), mentre altri 1,1 miliardi di euro provenivano da fondi con nomi evocanti la sostenibilità climatica, quali “pulito”, “transizione”, “net zero” e “Parigi”, con riferimento non alla Senna o alla Tour Eiffel, ma all'accordo di COP 21, definito l'Accordo di Parigi. Ovvio che quindi sia necessaria una revisione radicale dei parametri per gli investimenti che si vogliono definire “verdi”, come è ovvio che l'ESMA nel maggio 2024 abbia adottato una serie aggiornata di linee guida che “vietano” ai fondi con investimenti significativi in combustibili fossili di pubblicizzarsi come “verdi”; ma si tratta di regole, che entreranno in vigore entro la fine del 2024 e che non sono giuridicamente vincolanti. Tradotto: i singoli Stati membri possono scegliere di ignorarle, queste regole.
La ciliegina sulla torta sono le dichiarazioni dei grandi gestori di fondi raccolte dal Guardian. Amundi afferma che: «la transizione energetica avverrà solo se tutti gli attori economici cambieranno. Abbiamo quindi il dovere di sostenere e favorire la trasformazione di tutte le aziende e di tutti i settori». Secondo Intesa Sanpaolo: «gli investimenti in settori ad alto contenuto di carbonio non sono in conflitto né con gli obiettivi di trasparenza negli investimenti sostenibili fissati dalla SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulatory, che è collegata al regolamento EU 2019/2088 N.d.R.), né con l'accordo di Parigi, che promuove la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio», mentre Fidelity International si è rivelata più chiara, sostenendo che: «in qualità di amministratori attivi del capitale, riteniamo che promuovere il cambiamento attraverso un approccio di coinvolgimento positivo piuttosto che una politica di esclusione (o disinvestimento) sia il modo più efficace per influenzare positivamente il comportamento aziendale».
Quindi, anche soggetti che continuano a investire in prospezioni petrolifere, in auto endotermiche di grandi dimensioni e che hanno come obiettivo quello di continuare con il business as usual, fortemente emissivo, nel breve e medio termine, per ricadere nel perimetro degli investimenti green è sufficiente che dichiarino, anche in maniera generica, di voler essere net zero al 2050 oppure di essere allineati all'Accordo di Parigi. Anche in presenza di extra-profitti che poi si traducono in extra-emissioni climalteranti. Il tutto in un momento nel quale le emissioni climalteranti equivalenti hanno superato i 40 miliardi di tonnellate/anno, la concentrazione di CO2 è arrivata il 24 giugno 2024 a 427,33 ppm (era 423,35 ppm un anno prima con un più 0.94%) e l'aumento della temperatura media degli ultimi dodici mesi è stato di 1,63°C.
*direttore di Nextville
Questo editoriale è stato reso possibile grazie all'indagine di Voxeurop e dell'European Investigative Collaborations con il supporto della borsa di studio Bertha Challenge.