Muro climatico
Milano, 27 novembre 2024 - 01:00

Muro climatico

Sul clima dopo l’ultima COP di Baku siamo come un’autovettura lanciata contro un muro climatico. E con i freni guasti

300. 1.300. 5.000. Parliamo di miliardi di dollari. E queste sono le cifre in ballo, e di ballo si è sul serio trattato, alla COP29 di Baku. La prima cifra corrisponde a  ciò che hanno sul serio ottenuto i paesi in via di sviluppo per l’adattamento al cambiamento climatico e l’adozione di tecnologie rinnovabili, la seconda all’obiettivo, mancato, di molti paesi, mentre la terza coincide con la quantità di denaro che secondo molti ricercatori sarebbe necessaria per “fare sul serio” in materia di clima. E il testo finanziario sui New Collective Quantified Goal (NCQG) è stato approvato, con un colpo di mano da parte del presidente della COP Babayev che ha dichiarato l’adozione del documento, praticamente levando la parola alla nazione più popolata del Pianeta: l’India. Un’adozione che è stata accuratamente preparata sul fronte mediatico. Oltre ai 300 miliardi, infatti, nel documento troviamo una roadmap, nominata con un buon risalto strizzando l’occhi ai media “Baku to Belém Roadmap to 1.3T”, con la quale si è di fatto dato un colpo di spugna all’esigua cifra di 300 miliardi, scommettendo sul fascino dell’oltre “trilione” – miliardi di dollari. Scommessa vinta. Il giorno dopo la chiusura dell’assise climatica, infatti, tutti i giornali del globo, compreso il Guardian, hanno titolato la notizia come un successo, esattamente sulla falsariga dell’accordo di Parigi, nel quale, è bene ricordarlo, gli obiettivi di riduzione delle emissioni dei singoli paesi sono autodeterminate, volontarie e non vincolanti al punto che dal documento varato nella capitale francese “sparirono” le pur blande percentuali di riduzione.

Nel 2024, al summit in Azerbaijan, si è optato per una doppia cortina climatica, per mascherare l’insuccesso. La prima è quella della “road map” con la quale si vorrebbero trovare in 12 mesi 1.000 miliardi aggiuntivi, quando durante i 15 giorni dell’assise si è riusciti a passare dai 250 originari ai 300 finali. Il pannicello che serve a rassicurare che si arriverà a 1,3 trilioni di dollari è il testo stesso dell’accordo, nel quale «si decide di lanciare la Roadmap Baku-Belém per 1,3 trilioni, con l'obiettivo di aumentare i finanziamenti per il clima nei paesi in via di sviluppo per sostenere percorsi di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resilienti al clima e implementare contributi determinati a livello nazionale e piani di adattamento nazionali, anche attraverso sovvenzioni, strumenti agevolati e non creatori di debito e misure per creare spazio fiscale, tenendo conto delle iniziative multilaterali pertinenti, ove opportuno». Il nulla.

Legati ai fossili

L'accordo finale non menziona l'abbandono dei combustibili fossili, il “transition away from fossil fuel” deciso a COP28 che molti paesi avrebbero voluto anche questa volta, ad eccezione dell'Arabia Saudita, ricca di petrolio, e dei suoi alleati. E si cita qualcosa in merito solo al paragrafo 28, in cui è stato assunto l’impegno di transizione, ossia si «riafferma la necessità di riduzioni profonde, rapide e sostenute delle emissioni di gas serra in linea con i percorsi di 1,5 °C e si invitano [i paesi] a contribuire agli sforzi globali a cui si fa riferimento nel paragrafo 28». Un passo indietro rispetto all’impegno di un anno fa, ma non solo. Il testo, infatti, dà anche una spinta (come se ce ne fosse bisogno) al gas naturale fossile, che viene denominato come “combustibili di transizione”, dicendo: si riafferma che i combustibili di transizione possono svolgere un ruolo nel facilitare la transizione energetica, garantendo al contempo la sicurezza energetica. Tradotto: a tutto gas.

Carbonio al mercato

E anche il rendere operativi i mercati del carbonio è l’ennesima spinta alle fossili. Il varo dell’operatività dei nuovi mercati del carbonio dovrebbe nelle intenzioni superare i limiti dei vecchi CDM del Protocollo di Kyoto, visto che il sistema dovrebbe essere supervisionato dalle Nazioni Unite; tuttavia, non sono pochi gli osservatori che da tempo puntano il dito contro questi meccanismi che non garantiscono un effettivo e stabile sequestro della CO2, ma soprattutto si tratta di una serie di alibi per continuare a produrre energia in maniera tradizionale e fossile e non imboccare con decisione la strada delle rinnovabili. Così come utopica appare la creazione degli ITMO, processi di mitigazione della CO2 che vorrebbero usare meccanismi appartenenti alla cooperazione e che sono destinati al fallimento in assenza di robusti finanziamenti da parte dei paesi sviluppati. Sarebbe interessante capire, infatti, con quali fondi i paesi del Sud del mondo possano finanziare un processo di start up della riduzione di CO2 “conto terzi”, e sarebbe altrettanto interessante capire per quale motivo le nazioni del Nord dovrebbero trasferire all’estero lavorazioni e tecnologie che possono essere un’efficace leva commerciale delle proprie produzioni, un motore di sviluppo interno e una buona occasione per ridurre i bilanci nazionali di Carbonio e per incrementare l’occupazione. Insomma, una COP, quella di Baku, che è stata guidata tenendo l’occhio nello specchietto retrovisore. Cosa che impedisce di vedere il muro, climatico, verso il quale stiamo correndo. Senza nemmeno saper usare i freni. E non abbiamo ancora visto ciò che farà Donald Trump, che è tornato a essere il presidente della prima nazione al mondo emettitrice di gas serra.

*direttore di Nextville

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