La manifattura europea delle rinnovabili è in acque agitate. Occorre passare dal “ReArm Europe” al “ReAdapt Europe”
L’industria europea delle energie rinnovabili sta vivendo una fase di forte espansione, sul lato della produzione energetica, ma anche di sfide strutturali e di mercato sul fronte della manifattura per le rinnovabili, con dinamiche simili al settore dell’automotive. Di fatto l’Europa ha da tempo preso la strada dell’abbandono della manifattura dei sistemi per le rinnovabili, favorendo, con una scelta miope, l’Asia, essenzialmente per una questione legata al costo del lavoro. Una dinamica che nei decenni passati è stata simile anche per un settore cruciale come quello dei microchip, che a oggi vengono per la maggior parte realizzati in Asia, su progettazione e licenza da parte degli Stati Uniti. Il confronto è impietoso. La capacità produttiva nel 2023 di moduli fotovoltaici della Cina è stata di 340 GWp, dei quali 200 destinati al mercato interno, mentre l’Europa nello stesso anno ha avuto una capacità di 14,1 GWp. Con i costi della produzione fotovoltaica cinese che sono crollati del 42% in soli 12 mesi grazie alle economie di scala. Sull’eolico la situazione è meno drammatica, ma l’Europa sembra aver perso la leadership che possedeva fino a pochi anni fa. I quattro principali produttori cinesi nel 2013 hanno realizzato pale eoliche per 50,5 GWe, con una riduzione dei costi del 20% rispetto all’Europa, mentre i primi quattro produttori del Vecchio Continente hanno realizzato generatori eolici per 30,1 GWe. Il sorpasso c’è stato, ma in questo campo l’Europa mantiene la leadership nell’innovazione tecnologica, soprattutto nell’offshore e nei materiali avanzati, e la Cina sta rapidamente colmando il divario anche su questi fronti.
Accumulo alto mare
E se sul vento c’è aria di bonaccia, la vera tempesta è sulle batterie. Nel 2023 la capacità produttiva del gigante asiatico sull’accumulo è stata di 900 GWh, mentre l’Europa ha avuto nel 2023 una capacità per 225 GWh, ma ha prodotto batterie per soli 100 GWh a causa della ridotta richiesta del mercato interno dell’automotive. Le prospettive ci sarebbero, ma il problema sono i costi. Una fabbrica di celle per batterie nel Vecchio Continente richiede un investimento di 100 milioni di euro per GWh, che è il 47% in più che in Cina, mentre i costi operativi possono essere fino al 70% più alti. E a ciò s’aggiunge il fatto che l’incertezza sulla svolta elettrica per le auto (che ha coinvolto la Cina con grande decisione) rischia di mettere in uno stand by mortale i 54 progetti di gigafactory di celle di batterie per una capacità di produzione europea di accumulo di 1.725 GWh per il 2030, che sono per il 55% europei, il 23% cinesi, il 12% coreani, il 7% statunitensi, il 3% taiwanesi. E in questo panorama non stiamo considerando la realtà di potenze emergenti, come l’India e l’Indonesia, e gli effetti dell’Inflation Reduction Act (IRA) nella gestione Biden che ora Trump s’avvia a smantellare con non poche difficoltà.
Strade europee
In questo panorama cose dovrebbe fare l’Europa? Sono quattro le leve principali che potrebbero permettere al Vecchio Continente di reggere il confronto con l’Asia e gli Stati Uniti post Trump (se mai ci sarà un post MAGA). Eccole: L’unificazione dei mercati interni. Costruire un reale mercato unico per le tecnologie per le rinnovabili, ma non solo includendo tutte quelle altamente strategiche, unificando sia le leve fiscali, sia quelle energetiche. Superando il “campanilismo” delle fonti, dove la lobby francese dell’atomo si scontra a Bruxelles con quella delle rinnovabili, mentre in sordina guadagna posizioni quella del gas. Unificando anche il mercato elettrico, anche attraverso le connessioni. Un piano integrato per la ricerca scientifica applicata. La parcellizzazione della ricerca sulle rinnovabili significa non produrre risultati. Eppure di esempi d’integrazione di successo l’Europa ne possiede. Si pensi all’Esa per lo spazio, a Copernicus per il clima, fino ad arrivare al CERN di Ginevra. Ciò che serve alle rinnovabili europee, e alle industrie, molte delle quali sono PMI, che ne fanno la manifattura, è l’accesso alla ricerca applicata per innovare costantemente rendendo competitivi i prodotti. Il modello esiste ed è il National Renewable Energy Laboratory (NREL) statunitense, i cui laboratori sono accessibili alle imprese in maniera semplice e diretta. Condivisione delle tecnologie. Le tecnologie per le rinnovabili devono diventare una sorta di “bene comune” dello spazio europeo, cosa che aiuterebbe a creare una rete della componentistica per le rinnovabili, sulla falsariga di ciò che si è creato per l’auto endotermica e che non si riesce a duplicare per l’auto elettrica, con il risultato di consegnare l’automotive all’Asia. Finanziamenti straordinari coordinati. Per superare gli ostacoli che abbiamo di fronte servono degli investimenti straordinari anche in infrastrutture. Si pensi agli adeguamenti dei porti per creare degli hub per l’eolico off shore, alla nuova logistica per le materie prime e per i prodotti finiti, all’adeguamento per le reti elettriche e per quelle digitali. Per non parlare dell’unificazione normativa con la relativa semplificazione, che in alcuni paesi come l’Italia equivale a un incentivo finanziario.Coordinamento, condivisione, integrazione e unificazione per clima e rinnovabili dovrebbero essere i driver dell’Europa, per far sì che il Vecchio Continente non diventi solo un mercato di destinazione finale, sostituendo “ReArm Europe” – che ora si chiama Readiness 2030 – con “ReAdapt Europe” o “ReInvent Europe”. Ovviamente, in chiave climatica e con le rinnovabili.