L'accordo USA-UE sui dazi è quanto di peggio potesse succedere per il settore delle rinnovabili
L'accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea — firmato il 27 luglio 2025 in Scozia dopo mesi di minacce di guerra commerciale e negoziati tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen — è stato definito dalla Casa Bianca come “una modernizzazione generazionale dell'alleanza transatlantica”, ma nei fatti l'intesa segna l'ennesima resa, dopo il vertice Nato del giugno 2025, su un dossier cruciale e fondamentale per l'industria e il futuro energetico dell'Europa. Si è arrivati a dei dazi fissi del 15% su quasi tutte le esportazioni europee verso gli USA, automobili e componentistica incluse, che se da un lato evita l'applicazione di dazi al 30% minacciato da Trump, è oltre tre volte superiore al 4,8 % medio che c'era in precedenza, mentre le tariffe su acciaio, alluminio e rame, già fissate al 50%, rimangono tuttora in vigore, con la vaga promessa di rivederle.
Investimenti capestro
E in cambio di questo “sconto” l'UE si impegna a comprare energia dagli Stati Uniti per la cifra mastodontica di 750 miliardi di dollari, in soli tre anni, più 600 miliardi in investimenti, sempre entro il 2029, anche in armamenti. E qui iniziano i problemi. Gli Stati Uniti, infatti, nel 2024 hanno esportato prodotti energetici per 140 miliardi di dollari, per cui non avrebbero la capacità di produrre l'energia necessaria anche alla luce del fatto che non solo mancano 110 miliardi per coprire il flusso energetico verso l'Europa, ma hanno imposto l'esportazione d'energia verso la Corea del Sud per ulteriori 100 miliardi di dollari con un ammanco totale di 210 miliardi. Un fatto che ha sollevato dubbi non indifferenti tra gli osservatori più attenti, anche alla luce del fatto che in gran parte si tratta di GNL che di solito viene acquistato tramite contratti a lungo termine, mentre Trump, interessato a capitalizzare politicamente la vicenda dazi, ha imposto un periodo di soli tre anni. Cosa dovrebbero fare i paesi interessati a ciò con i contratti preesistenti non è dato sapere. Eni, per esempio, ha stipulato un accordo di fornitura con l'americana Venture Global il 16 luglio 2025, che ha un “piccolo” difetto: ha la durata di venti anni. Ragione per la quale non rientra nell'orizzonte temporale voluto da Trump.
Le esportazioni europee, dalle auto ai farmaci, incassano un colpo pesante, mentre Washington incamera miliardi e stringe politicamente Bruxelles a una dipendenza energetica e militare ancora più stringente. Cosa che avrà delle pesanti ripercussioni. Ci sarà un aumento dei consumi del gas, che in Europa sono in diminuzione, a questo punto a scapito delle fonti rinnovabili, che rappresentano la vera concorrenza sul fronte della potenzialità di diffusione e sul prezzo. Tradotto: con questo accordo l'Europa si è piegata a utilizzare energia cara e inquinante. E su questo fronte Trump registra un altro “successo”: ha cambiato in maniera radicale la politica energetica di una delle più grandi economie del Pianeta senza alcun problema per gli Stati Uniti. Un puro esercizio di potere verso un'economia sviluppata che non si vedeva da decenni, con una dipendenza anche sul fronte militare, cosa che ha cancellato anche l'ipotesi, voluta specialmente dalla Germania e sposata dall'Italia, di un'uscita dalla crisi della manifattura attraverso le commesse militari. Ora invece i soldi dei contribuenti europei andranno a incrementare i profitti delle industrie militari a stelle e strisce.
Green New Deal malato. Grave
Per quanto riguarda il Green New Deal europeo, c'è da dire che se prima non godeva di ottima salute, ora verserà in stato comatoso. L'eccesso di gas naturale, infatti, limiterà lo sviluppo delle fonti rinnovabili da parte degli stessi operatori energetici, fossili, per due motivi. Il primo sarà quello di limitare al massimo le fonti green sul fronte della quantità, mentre il secondo sarà quello di evitare una concorrenza sui prezzi, visto l'alto costo del GNL proveniente dall'altra parte dell'Atlantico. Fenomeni che riguarderanno specialmente l'Italia, che è dipendente per il 25% della produzione elettrica dal gas, contro il 15% della Spagna, il 12% della Germania e il 3% della Francia. E un rallentamento delle rinnovabili significherà anche una pausa nell'adeguamento delle reti, visto che rimarrà predominante il modello energetico centralizzato rappresentato dalle grandi centrali rispetto a quello distribuito necessario alle rinnovabili. Con l'innesco di un circolo vizioso nel quale le reti non s'adeguano perché lo sviluppo delle rinnovabili rallenta e le rinnovabili rallentano per l'inadeguatezza delle reti.
Clima al buio
E non solo. Bisogna considerare il fatto che i principali attori energetici nostrani, Enel ed Eni, sono partecipati al 33% dallo Stato, ragione per la quale difficilmente saranno varate, in questo nuovo contesto, misure che possano lederne la competitività. Anzi, l'obbligo d'acquisto a ogni costo d'energia potrebbe spingere il Governo a rimandare almeno di altri tre anni la chiusura delle poche centrali termoelettriche a carbone, nel tentativo di soddisfare le clausole vessatorie dell'accordo sui dazi. Il tutto con qualsiasi prospettiva d'azione politica sul clima che tramonta dall'orizzonte, non solo italiano, ma europeo.
Ma a scombinare le carte potrebbe arrivare la Cina. Il gigante asiatico, infatti, fino a ora è stato fermo, reagendo solo ed esclusivamente agli attacchi diretti dell'inquilino della Casa Bianca, ma secondo gli osservatori più attenti sarebbe pronto a sferrare un attacco proprio sull'offerta commerciale relativa alle rinnovabili e all'auto elettrica a base di prezzi bassi al limite del dumping, cosa che gli permetterebbe di entrare in maniera massiccia sul mercato europeo, ma non solo, con prodotti green, di qualità e con soglie d'ingresso molto ma molto basse che convincerebbero i consumatori, complice anche l'inflazione e i bassi salari, ad acquistare in massa sistemi per le rinnovabili e per la mobilità elettrica. Un intervento che metterebbe la pietra tombale su qualsiasi ipotesi di sviluppo della manifattura green nel Vecchio Continente, ma che almeno avrebbe l'effetto di sviluppare il mercato dell'installazione, fornendo elettricità a basso costo e decarbonizzata. Una prospettiva che potrebbe essere la meno peggio ma che Ursula von der Leyen sembra non essere assolutamente in grado anche solo d'immaginare. Figuriamoci quella dell'autonomia industriale ed energetica dagli Stati Uniti.