Arabia Saudita e Pakistan firmano un patto d'assistenza militare, anche nucleare, che cambierà gli scenari energetici mondiali
Nel silenzio quasi assordante dei media generalisti, è accaduto qualcosa che cambia radicalmente le geometrie del potere globale, specialmente da punto di vista energetico: l'Arabia Saudita e il Pakistan hanno sottoscritto un patto di mutua difesa militare. La notizia, riportata da Reuters e altri media internazionali, dovrebbe scuotere i decisori politici e gli osservatori strategici ben oltre i confini del Medio Oriente. E invece passa sottotraccia. Perché? Oggi un'America distratta dalle questioni interne legate al rafforzamento del movimento MAGA in chiave elettorale attraverso la censura dei media è costretta ad assistere, impotente, alla perdita di uno dei suoi storici alleati nel Medio Oriente, la regione più militarizzata e strategica del Pianeta. L'Arabia Saudita, fino a ieri architrave del sistema del petrodollaro e cliente privilegiato del Pentagono, ha firmato un'alleanza “tipo NATO” con il Pakistan, che ricordo essere una potenza nucleare con 170 testate atomiche, mentre Israele ne possiede circa 90, in base alla quale un attacco a uno dei due sarà considerato un attacco a entrambi. Il significato simbolico è importante. Dopo gli attacchi all'Iran e al Qatar d'Israele, avvenuti con l'avvallo e la partecipazione di Donald Trump, Riyad non si fida più delle garanzie statunitensi. Anche perché gli Usa ora sono al primo posto per la produzione petrolifera, ed essendo autonomi sul fronte del petrolio potrebbero anche fare a meno dell'Arabia Saudita, che comunque è al secondo posto nella produzione mondiale. Un accordo che è già partito nei fatti. Il Pakistan schiererà 25.000 soldati pakistani lungo il confine tra Arabia Saudita e Yemen per combattere gli Houthi. L'Arabia Saudita pagherà 3.500 Riyal (800 euro) sauditi al mese per ogni soldato pakistano. Quattro volte lo stipendio medio del Pakistan.
Nucleare, Cina e deterrenza multilivello
Entriamo nel dettaglio. L'accordo non è solo difensivo. Il Pakistan, infatti, rifiuta esplicitamente la dottrina del "no first use", che esclude la possibilità di un primo colpo nucleare in qualsiasi circostanza, confermando che le armi nucleari sono considerate solo come deterrente e strumento di ritorsione, ed estende ora il suo ombrello atomico a favore di Riyad. È la prima, concreta, reazione alla crisi mediorientale che vede la creazione di un blocco nucleare in quello scacchiere, alternativo al binomio Israele-USA. Ma non è tutto. Visto che l'81% delle importazioni di armamenti convenzionali pakistani proviene dalla Cina, ne consegue che l'Arabia Saudita si sta progressivamente integrando nel complesso militare-industriale cinese. E quindi si delinea un asse strategico che collega Pechino, Islamabad e Riyad, sotto la protezione nucleare pakistana e con la regia infrastrutturale della Belt and Road Initiative. Di fatto, il corridoio commerciale tra Cina e Pakistan ora si estende fino al Golfo Persico, garantendo alla Cina un passaggio energetico stabile, sicuro e sottratto al controllo statunitense. Ed è una coincidenza che la firma arrivi pochi giorni dopo l'attacco israeliano sul Qatar? No. Si tratta, infatti, di un chiaro segnale che la protezione americana non è più ritenuta sufficiente, né credibile. Il messaggio saudita è inequivocabile: “non abbiamo la bomba, ma possiamo affittarla”. Oltre a ciò l'India, storico rivale del Pakistan, si ritrova in una posizione geopolitica insostenibile: il suo peggior nemico è ora il garante armato di uno dei suoi principali fornitori energetici. La partita energetica di buona parte del mondo si sposta così da un piano commerciale a uno strategico. A dimostrazione del fatto, se ce ne fosse il bisogno, che oggi tutte le strategie geopolitiche che ruotano attorno alle questioni energetiche fanno ancora perno sulle fonti fossili, che rappresentano ancora l'80% del totale, con il petrolio che rappresenta il 30% di questa percentuale. Oltre a tutto, ciò bisogna notare che negli ultimi quattro anni Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno investito centinaia di miliardi di dollari nel settore tecnologico cinese e nella logistica energetica e che la maggior parte di questi accordi è stata mediata dai militari e dagli industriali pakistani. In pratica è in corso, da parte delle potenze asiatiche, uno sforzo concentrato per sganciare gli stati del Golfo dalla sfera d'influenza statunitense.
Israele come fattore di rischio globale
E c'è dell'altro. La politica israeliana, con la sua crescente aggressività regionale — Gaza, Libano, Qatar — è diventata il detonatore di una instabilità incontrollabile. Una spirale che rischia di coinvolgere attori più potenti e imprevedibili: Iran, Turchia, Egitto. Tel Aviv, oggi, è la mina geopolitica più esplosiva. Più si accentua l'intransigenza militare israeliana, più si salda la convergenza tra i paesi non allineati, più si accelerano la disintegrazione dell'architettura di sicurezza costruita da Washington dopo la Seconda Guerra Mondiale. Infine, il patto saudita-pakistano mette in crisi un altro pilastro del dominio americano: il sistema del petrodollaro. Riyad, liberatasi dal vincolo unilaterale con Washington, può fissare il prezzo del petrolio anche in yuan, rubli o euro. Un'altra crepa in un sistema monetario che vacilla da tempo e che potrebbe collassare rapidamente, visto che non siamo di fronte a un semplice rimescolamento delle alleanze, ma a un mutamento strutturale dell'ordine globale, nel quale le energie fossili ancora una volta sono protagoniste, mentre le rinnovabili, in mano sempre più alla Cina, lo diventeranno solo tra qualche decennio, con il clima e i relativi accordi che diventeranno sempre meno influenti. Un processo forse irreversibile, ma che è certamente accelerato. Che piaccia o no, siamo entrati nel mondo multipolare conflittuale. Gli Stati Uniti lo subiscono. La Cina lo pianifica e stringe alleanze strategiche. Israele lo alimenta, giocando una partita sempre più pericolosa. E l'Europa? Come al solito, osserva. In silenzio. La cosa peggiore che possa fare.