Sequestrare la CO₂ non è la soluzione. Si rischia un gigantesco alibi climatico a favore delle fonti fossili
Alla Cop30 di Belém Johan Rockström ha lanciato un messaggio che colpisce: «per evitare i punti di non ritorno catastrofici, i Tipping Points, non basta ridurre le emissioni, bisogna anche rimuovere dall’atmosfera 10 miliardi di tonnellate di CO₂ all’anno. Il 25% delle emissioni planetarie. È necessaria una seconda industria globale, quasi grande quanto il complesso petrolio-gas, dedicata a ripulire l’aria dopo due secoli di combustibili fossili». Il punto è semplice quanto pericoloso. La rimozione del carbonio viene presentata come una componente necessaria della risposta climatica. Da qui al vederla come una “soluzione” il passo, specialmente politico, è breve. Ed è proprio su questo punto che non concordo con Rockström: il sequestro della CO₂ non è una soluzione, è un palliativo limitato, costoso, fragile, rischioso che inoltre può essere usato dalle fonti fossili come un alibi per non cambiare il sistema energetico e produttivo. Oltretutto a scapito dei cittadini che si troverebbero a pagare bollette salate anche per la rimozione della CO2.
Il messaggio implicito: possiamo continuare (quasi) come prima
I numeri ricordati a Belém sono chiari. Secondo Chris Field, della Stanford University, per ogni decimo di grado in meno rispetto alla traiettoria attuale si dovrebbero rimuovere 200 miliardi di tonnellate di CO₂. Le emissioni planetarie, ai ritmi attuali, di cinque anni. Nel quadro evocato, con un superamento di 1,5 °C e un tentativo di restare intorno a 1,6-1,8 °C, entrerebbero quindi in scena tecnologie industriali di rimozione: cattura diretta dall’aria (DAC), bioenergia con cattura e stoccaggio (BECCS), fertilizzazione degli oceani, oltre alla forestazione su larga scala. In ultima analisi la narrazione climatica che deriva da queste tesi è pericolosa. Si sancisce infatti che non siamo riusciti a prevenire il superamento di 1,5 °C con la mitigazione e che è a rischio anche l’obiettivo dei 2 °C, si afferma che proveremo a contenere i danni con una combinazione di rimozione industriale delle emissioni e tagli più decisi – forse – in futuro, si inseriscono costi aggiuntivi strutturali elevati che saranno permanenti, a differenza di quelli per le rinnovabili che s’innestano su un ricambio degli asset energetici. Questo impianto industriale/climatico oltretutto sposta l’attenzione dal nodo politico centrale: l’uscita rapida e ordinata dai combustibili fossili. L’idea di una futura “aspirapolvere climatica” crea un margine psicologico e politico per ritardare la decarbonizzazione reale. È il classico “moral hazard”: se esiste, o sembra esistere, una tecnologia capace di riparare il danno in seguito, la pressione per evitarlo in origine cala. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) mette in guardia su questo aspetto da anni. Nelle sintesi del Sesto rapporto (AR6) la rimozione di CO₂ compare in quasi tutti gli scenari compatibili con gli obiettivi di Parigi, ma viene descritta come supporto, non come sostituto della riduzione delle emissioni. Gli scienziati parlano di “dipendenza estrema” da rimozioni in molti scenari 1,5 °C, con rischi elevati di mancata realizzazione e di conseguenze sociali e ambientali rilevanti.
Limiti fisici, energetici e territoriali
Per capire meglio la portata della rimozione del carbonio supposta da Rockström è necessario soffermarsi sull’insieme delle tecnologie disponibili e sui loro costi. E soprattutto bisogna sapere che non è una formula astratta, è un insieme di processi materiali, che richiedono energia, acqua, suolo, infrastrutture e fondi. Le principali opzioni sono:
• forestazione e riforestazione: sono lo strumento meno costoso in termini monetari (circa 50 dollari a tonnellata), ma richiedono superfici immense. Occupazione di suolo che entra in competizione con agricoltura, biodiversità, usi locali. L’IPCC sottolinea che scenari con forti estensioni di bioenergia e forestazione possono ledere la sicurezza alimentare e i diritti delle comunità rurali, specie nel Sud del mondo;
• la cattura diretta dall’aria (DAC): è un processo industriale ad alta intensità energetica, con costi tra i 700 e i 1.400 dollari per tonnellata. Per arrivare ai 10 miliardi di tonnellate annui calcolati da Rockström servirebbe una quantità enorme di elettricità rinnovabile dedicata, infrastrutture di trasporto e stoccaggio del carbonio. In un contesto in cui non si riesce ancora a installare abbastanza rinnovabili per sostituire carbone, petrolio e gas, pensare a una seconda industria energetica per ripulire l’aria dalla CO2 rischia di essere un’opzione da pura fantascienza;
• coltivazione di biomassa, combustione per produrre energia e cattura e stoccaggio della CO₂ prodotta (BECCS). In molti scenari che hanno come obiettivo gli 1,5 °C, dell’IPCC il BECCS assume ruoli, puramente ipotetici, di rimozione di diversi miliardi di tonnellate l’anno, con fabbisogni di terra paragonabili alle superfici di interi continenti, e oltre a ciò la fattibilità tecnica e sociale di enormi volumi come questi è assai incerta;
• fertilizzazione degli oceani e altre geoingegnerie biologiche: sono approcci sperimentali con rischi elevati per gli ecosistemi marini e per gli equilibri biogeochimici, che oggi non hanno un consenso scientifico e normativo sufficiente per applicazioni su larga scala. Tradotto: non si ha nemmeno la certezza che funzionino e che non inneschino processi ora ignoti.
Oltre a tutto ciò bisogna sapere che la CO₂ rimossa va stoccata da qualche parte, per tempi geologici. Ciò richiede, vista la quantità in gioco, una rete globale di siti di stoccaggio, controlli, monitoraggio, gestione dei rischi di perdita.
Seconda industria fossile
Il sequestro della CO2 su questa scala, inoltre, porterebbe alla creazione di ciò che sarebbe sostanzialmente una seconda industria fossile, o meglio al raddoppio della prima, visto che le tecnologie in gioco sono simili. E su ciò Rockström stesso riconosce che per queste tecnologie servirebbe la seconda industria più grande al mondo dopo petrolio e gas. È una frase chiave. Per dimensioni economiche, complessità e potere di influenza, un settore del genere creerebbe, o raddoppierebbe, nuovi attori globali con forte interesse alla propria espansione. Esattamente come è avvenuto per l’industria fossile. Con una differenza: mentre il beneficio climatico della riduzione delle emissioni è immediato e misurabile, quello delle rimozioni industriali è più opaco e scarica sulle generazioni future i rischi di fallimento. Il rischio è quello di passare da una dipendenza dai combustibili fossili a una dipendenza da “servizi di rimozione”. Una forma di azione che creerebbe una sorta di “rendita climatica” alimentata dall’utilizzo costante e strutturale delle fonti fossili e dalla rimozione della CO2.
Sociale ignorato
C’è poi la questione sociale, che quando si parla di CSS è sempre ignorata ma che in questo caso diventa cruciale. Dove si realizzeranno queste gigantesche infrastrutture di rimozione? Chi ospiterà gli impianti, le piantagioni, i serbatoi di stoccaggio? La storia, opaca, delle compensazioni di carbonio indica una tendenza chiara. I progetti di forestazione o bioenergia sono collocati in paesi a basso e medio reddito, dove terra e lavoro costano meno, mentre le emissioni che si compensano si concentrano nei paesi ad alto reddito e nei grandi gruppi industriali. In un mondo che già oggi registra conflitti per l’accesso alla terra e all’acqua, un’espansione massiccia di progetti legati al carbonio rischia di aggravare:
• pressione sulle comunità indigene e rurali, in particolare in Amazzonia, Africa e Asia;
• land grabbing mascherato da progetti “verdi”;
• dinamiche neocoloniali, con il Sud globale trasformato in “deposito di CO₂” del Nord.
E poi c’è Thelma Krug, già vicepresidente dell’IPPC, che, sui meccanismi di rimozione, ha da tempo segnalato la necessità di valutare con attenzione i rischi, gli impatti sui territori, gli squilibri di potere. Il principio 10 della Dichiarazione di Rio, che Rockström ha citato, parla di accesso alle informazioni e partecipazione pubblica alle decisioni ambientali. Fatti che applicati alla rimozione corrispondono all’attivazione di processi democratici reali su cosa fare, dove farlo, con quali diritti per le popolazioni coinvolte. Tutte questioni che sono state sistematicamente ignorate in 150 anni di storia dell’industria fossile. La stessa che dovrebbe gestire la rimozione della CO2.
Il vero “punto di non ritorno” è politico
E se da un lato Tim Lenton, scienziato specializzato in “punti di non ritorno” e docente di cambiamenti climatici e scienze del sistema terrestre presso l'Università di Exeter, ricorda che il collasso della circolazione atlantica, la fusione accelerata della Groenlandia e dell’Antartide, il degrado dell’Amazzonia e delle barriere coralline sono punti di non ritorno fisici del sistema Terra, esistono anche ulteriori punti di non ritorno: quelli politico e industriale. Nel momento in cui la comunità internazionale legittima la rimozione di CO₂ come pilastro della strategia climatica, crea le condizioni per una nuova infrastruttura di potere economico. Un’architettura d’interessi che difficilmente accetterà di restare “residuale” e subordinata solo ed esclusivamente alla riduzione delle emissioni. Un fatto che è già visibile oggi nella retorica delle grandi compagnie fossili. Molti piani aziendali “net zero” prevedono una riduzione limitata delle emissioni operative e una forte componente di compensazioni e future rimozioni. Logica che entra anche nei NDC, gli impegni climatici dei firmatari dell'Accordo di Parigi, di alcuni paesi, che contano su una serie di assorbimenti futuri di CO2 ancora indefiniti per riuscire a dichiarare traiettorie compatibili con Parigi. Una sorta di gioco delle tre carte climatico. E in questo quadro, le dichiarazioni di Rockström rischiano di rafforzare l’idea che esiste un piano B tecnologico capace di contenere il riscaldamento anche se il mondo supera 1,5 °C. In questo quadro la comunità scientifica, invece di presentare la rimozione del carbonio come un elemento necessario della strategia, dovrebbe ribadire con un messaggio più severo, ma decisamente più onesto, che ogni tonnellata di CO₂ emessa oggi aggrava il rischio di superare i punti di non ritorno, che le tecnologie di rimozione esistenti non sono in grado, nei tempi utili, di compensare un superamento ampio e prolungato degli 1,5 °C senza generare danni collaterali gravi e che la priorità assoluta è la riduzione rapida delle emissioni di combustibili fossili, con la fine di nuove esplorazioni e con la dismissione progressiva, ma veloce, delle infrastrutture esistenti. E che la rimozione ha un ruolo limitato destinato a settori come la gestione delle emissioni residue difficili da abbattere e la riparazione di ecosistemi terrestri e marini, danneggiati.
In sintesi, la rimozione non è un pilastro, è un cerotto. Importante per contenere tagli superficiali, ma assolutamente inadatto a fermare l’emorragia principale. In questo quadro la richiesta di Rockström di inserire la rimozione nelle dichiarazioni della presidenza COP30 con un ruolo da protagonista è assolutamente inopportuna. «Ogni decimo di grado conta», ricorda Rockström. Ed è vero. Ed è proprio per questo che serve prudenza nel modo in cui la comunità scientifica comunica la rimozione del carbonio. Se la politica interpreta, come fa già oggi, la rimozione come una soluzione, l’esito sarà un nuovo ciclo di promesse tecnologiche non mantenute, mentre il Pianeta continua a surriscaldarsi. Capisco che la dichiarazione di Rockström sia dettata dalla massima urgenza, ma le scienze ambientali dovrebbero perdere almeno un po’ della loro verticalità e riprendere a occuparsi in molti casi dei contesti generali, che sono fatti anche da società ed economia. E la rimozione della CO2 è uno di questi.