Il vertice di Belém è un fallimento. Si evita accuratamente di nominare il tema dell'uscita dai combustibili fossili. Per favorirli
A COP30, il vertice annuale sul clima delle nazioni firmatarie della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che si è appena concluso, media, governi e delegazioni si sono affrettate a presentarne l'esito come una vittoria della cooperazione internazionale. Simon Stiell, segretario esecutivo dell'UNFCCC, ha elogiato la conferenza sostenendo che «la cooperazione sul clima è viva e vegeta, mantenendo l'umanità nella lotta per un pianeta vivibile». Pura retorica. Necessaria a tenere vivo il meccanismo della negoziazione climatica, che ora è in terapia intensiva, ma pur sempre retorica.
Il bilancio è ben diverso: la COP30 è stata un fallimento. Il testo decisionale finale, il Global Mutirão o Sforzo Collettivo Globale, rappresenta di fatto una forma aggiornata di negazionismo climatico. Non perché neghi la realtà del riscaldamento globale, ma perché la elude sul terreno che conta davvero: la fine dell'era dei combustibili fossili. Nel 2023, il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ha chiarito che il mondo ha già sviluppato o programmato una quantità di risorse fossili incompatibile con l'obiettivo di limitare il riscaldamento a 2 °C, e che per restare sotto questa soglia una parte significativa di questo "capitale fossile" deve essere abbandonata, lasciata nel sottosuolo e non utilizzata. E infatti in quell'anno a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, con la presidenza emiratina, – una COP più intrisa di petrolio non si era mai vista – l'assise si concluse chiedendo, nel testo finale, ai Paesi di "transitioning away from fossil fuels in energy systems", fare una transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo. Era, l'uso del passato è d'obbligo, la prima volta che i combustibili fossili entravano in una decisione COP a questo livello. Il testo finale di COP30, invece, ignora completamente questo punto. E non solo non assume l'impegno ad abbandonare i combustibili fossili: non li nomina nemmeno. Tradotto: è come discutere di salute pubblica evitando sistematicamente la parola "tabacco".
Aspettative tradite
Ciò rende il fallimento ancora più aspro, perché la COP30 si era aperta con segnali di tutt'altro tenore. A partire dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che aveva sollecitato il mondo a dotarsi di roadmap che consentano all'umanità, in modo equo e pianificato, di superare la sua dipendenza dai combustibili fossili. All'appello si sono uniti circa 90 Paesi, ma non l'Italia. «È una coalizione globale, con Nord e Sud del mondo che parlano con una sola voce: questa è una questione che non può essere messa a tacere», aveva dichiarato il segretario all'Energia del Regno Unito Ed Miliband, persona che da decenni ha un ruolo di primo piano nella lotta ai cambiamenti climatici, dopo una conferenza stampa in cui 20 ministri e inviati per il clima avevano chiesto di rafforzare e inserire nel testo finale la tabella di marcia per l'uscita dai fossili, senza l'Unione europea che, in stallo per buona parte della COP30 a causa di Italia e Polonia, ha diffuso una propria proposta per farla poi confluire nella decisione conclusiva.
Il giorno prima la chiusura della COP30 i Paesi che sostenevano la roadmap per l'eliminazione graduale dei combustibili fossili erano già 89. Eppure, nella seconda bozza del testo – pubblicata lo stesso giorno – ogni riferimento a quell'impegno era scomparso. Il messaggio politico che arriva da Belém è chiaro: grazie al compromesso al ribasso della COP30, l'era dei combustibili fossili può continuare. Dietro questa rimozione c'è la pressione dei petrostati, guidati da Russia e Arabia Saudita, che hanno combattuto, con molto successo, qualsiasi tentativo di inserire nel testo un linguaggio vincolante sull'uscita dalle fonti fossili.
E a sostenere questo "autoritarismo fossile" c'è stato anche il grande assente dalla COP30: Donald Trump, presidente del più grande produttore mondiale di combustibili fossili, che continua a definire la crisi climatica una "truffa". Anche se gli Stati Uniti erano ufficialmente assenti dai negoziati, l'asse politico tra Trump e l'Arabia Saudita e l'affinità con la Russia hanno rafforzato la capacità di questi paesi di difendere i propri interessi energetici e affossare così qualsiasi iniziativa alla COP30.
Ma il problema non si esaurisce nei petrostati. Il potere di veto di questi Paesi non sarebbe infatti lo stesso se l'Unione europea fosse più decisa sul fronte climatico. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen, in una conferenza stampa al G20 in Sudafrica, in contemporanea alla COP30, ha affermato: «non stiamo combattendo i combustibili fossili, stiamo combattendo le emissioni che ne derivano». È una frase che ha minato nei fatti la posizione dei negoziatori europei e che non sta in piedi. Il livello è stato, come ha scritto il The Guardian, simile a dire: «non rinunceremo a mangiare il gelato, rinunceremo ad assorbire le calorie del gelato». Ma non basta. L'affermazione della presidente è molto, troppo, simile a quella di Osama Faqeeha, viceministro dell'Ambiente dell'Arabia Saudita, che ha affermato: «il problema sono le emissioni, non il carburante». L'Arabia Saudita sostiene da anni che si potrebbe continuare a usare combustibili fossili eliminando "semplicemente" – con le tecnologie di rimozione della CO₂ – centinaia di milioni di tonnellate di emissioni ogni anno.
Scissione in corso
Oltre a tutto ciò è arrivata la scissione. Colombia e Paesi Bassi, sostenuti da 22 nazioni, hanno annunciato che promuoveranno in modo indipendente una tabella di marcia per l'eliminazione graduale dei combustibili fossili, a partire da una conferenza prevista per aprile 2026, al di fuori del processo delle COP. Iniziativa lodevole e con ogni probabilità fatta con le migliori intenzioni, ma che potrebbe, se non aggregasse molti più paesi di quelli proponenti, affossare il processo multilaterale sul clima, creando un percorso parallelo destinato ad infrangersi sul mercato.
Di fronte a una maggiore installazione di rinnovabili, sempre più competitive, il fronte fossile se si troverà "slegato" da qualsiasi obbligo, anche blando, come quelli dell'Accordo di Parigi, agirà sul fronte dei mercati per rispondere sui costi sempre minori delle rinnovabili, agendo sui prezzi di carbone, petrolio e gas naturale, abbassandoli. In presenza di infrastrutture fossili che sono state ammortizzate da decenni, il margine di manovra è enorme. Lo dimostra l'esperienza della Russia nel caso del blocco delle esportazioni dovuto alle sanzioni derivate dall'invasione dell'Ucraina. A Putin sono bastati pochi mesi per reindirizzare le vendite perdute verso altri paesi usando la leva dei prezzi. E il fronte delle fonti fossili per agire in maniera analoga avrebbe degli obblighi ben più blandi, se non assenti.
Una cosa questa COP30 l'ha messa ben in chiaro: molti troppi paesi vogliono estrarre, vendere e utilizzare le fonti fossili fino all'ultima goccia di petrolio, molecola di gas naturale e pezzo di carbone. E non sarà la politica a far cambiare loro questa idea. Oggi è necessario riformare in maniera radicale il meccanismo delle COP per fare entrare a pieno titolo la società civile nelle stanze dei bottoni del meccanismo multilaterale. Se non succederà, i petrostati potranno brindare per decenni affermando: «Lunga vita alle fossili».